Granata

 

Apparso su L’Equivoco, novembre 2024 

 

 

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Illustrazione: Francesca Vitolo

Certo che ho sbagliato. E che ci voleva? Era fin troppo facile.

Ho detto: «Ehi ciao, e tu come ti chiami?»

Bugia. No, no, no che non sono sceso tanto in basso. Altrimenti, più che “sbagliare” avrei dovuto dire “fare il codardo”. Perché il coraggio si sa, molto più spesso di quanto si pensi sta nel tacere, nel non fare, nel dirsi soddisfatti, stop…

Non sono sceso a quel livello, ma forse ho finito per fare anche peggio. Ho “lanciato il sasso” per così dire, ho simulato di non volere, mimando un atteggiamento che nei fatti mirava comunque allo stesso scopo…

Ho gridato: «Ragazza, ragazza!» proprio come se fossi io quello molto più vecchio e perciò fosse realmente fuori discussione porci sullo stesso piano. Avevo appena infilato la mia carta bancomat nella fessura di un apparecchio quando una mano iniziò a bussare sulla mia spalla, la torretta era pronta mentre io… io no, guardavo lontano, le mie mani appoggiate contro il fusto della macchina – sopra lo schermo, sotto i pannelli solari, in uno spazietto dove per istinto avevo saputo che il calore non friggesse le mani – del bip insistente, del ti-di-bip che invitava a pagare parevo non curarmi. Poi un secondo ancora e mi sono riavuto, scusandomi frettolosamente con chi era dietro, quel suo strenuo picchiettare sul mio povero trapezio destro… sono tornato vigile, vigile, vigilissimo, sono tornato a vedere, e senz’altro ho ripetuto con fare atono: «Ragazza, ragazza!»

Un paio di colleghe di studi stavano attraversando la strada, un altro gruppetto di fanciulle occupava i tavoli di un bar all’aperto – c’era anche qualche maschietto, lì in mezzo – il tutto era proprio all’incrocio con l’università, territorio bulgaro per lasciarsi andare a una camminata, non mancando certo le potenziali destinatarie per quel genere di chiamata…

«Ragazza!»

Al terzo sollecito, tra le altre si gira l’apostrofata: abito lungo a costine color granata, sulla schiena due lacci, nient’altro, i tagli spericolati fin sulle anche, forse era perfino bucato sulla pancia quel misero vestitino, tanto per lasciare ancora qualcosa scoperto. Ma è stato appena un fuoco di paglia, poco più che un riflesso: poi ha continuato per la sua, a camminare oltre il semaforo.

«E un attimo!» fui costretto a tranquillizzare il mio spazientito successore.

«Be’, che fa? Non ho capito.»

«… aspetto la ricevuta» scapole muscolose mentre oscilla le braccia, le spalle larghe, molto larghe e sottili sopra la marcata anfora, e… si ferma a sistemare un sandalo? Si piega senza inginocchiarsi, e le costine di cotone fanno quel che possono, si allungano, si stendono, si slanciano lungo le curve, tentano di conformarsi sfruttando il calore del corpo… stavo per dire ancora qualcosa sull’accaduto, ma mi si è strozzato in gola e non ce l’ho fatta…

«Oh, finalmente!» sbottò il tipo dietro.

Era ancora impegnata col sandalo, tant’è che anch’io liberai la macchina con estrema lentezza, nel tentativo di mantenere il contatto visivo.

«Sei aria fresca!» gridai testuali parole – l’uomo in coda, impadronitosi del posto, deve avermi risposto con una pernacchia.

Lei è rimasta curva, forse non sentendosi chiamata in causa. È stato lì che mi sono spinto, ho mosso qualche passo; l’ho detto: avrò sbagliato io, ma di sicuro non a un livello tale, così abietto e scadente, da non potersi giustificare. Ho raggiunto il bordo del marciapiedi, lei era proprio sulla sponda opposta. Così ebbi modo di verificare un’altra ipotesi sconcertante: che quel poco vestito, teso com’era, si stampava sulle natiche.

«Non voglio provarci» dichiarai a gran voce cercando il sostegno di un archetto per pedoni «il caldo gioca brutti scherzi, sei un’apparizione.»

Facevo lo stoccafisso quando infine voltò la testa. Doveva aver risolto, per cui poté tirarsi su e guardarmi negli occhi, un movimento così flessuoso del corpo da lasciare a bocca aperta. Mi guardò e disse questo – il naso adunco l’avevo visto, ma in qualche modo era anche meglio: «Ce l’hai con me?» disse, la bocca piccola e le lentiggini, era brunita dal sole, rossa, cioè castano-rossa, il vestitino color granata le si addiceva…

«… no!» ritrattai con forza un’ammissione della mia testa. «Scusa, mi sa che ti ho scambiato per un’altra.»

«Ah va bene» e riprese a camminare.

«Sei favolosa!» Strinsi con decisione l’archetto, ero stato davvero io a parlare?

Tre passi, non più, e girò sui tacchi: «Io?» domandò perplessa.

Continuai a lottare: era o no la cosa più sacrosanta al mondo? E allo stesso tempo ingiusta, scorretta, codarda: perché? Per via di Mara, la mia fidanzata, o c’era qualcosa di offensivo nell’approccio?

La ragazza tornò sui suoi passi. Mi fece strano vedere una persona tanto risoluta, io che non mi sentivo già più le gambe. Aspettò che scattasse il verde. Poi attraversò la strada e mi si piazzò di fronte. Osai appena sollevare le palpebre a quel punto. «Allora» mi affrontò «ce l’hai con me?»

Mi ci volle un po’ per rispondere. Era entrata nel mio raggio d’azione, io che ben volentieri avrei continuato a guardarla come se fosse un quadro. «Sì, cioè no scusa, non era mia intenzione, non so cosa mi sia preso è il caldo, scusami ancora, non volevo…»

«Come hai detto che ti chiami?» gettò lì senza prestarsi alle mie giustificazioni. Aveva gli occhi verdi piccoli come la bocca, un fiore fresco.

«… come mi chiamo?» ero molto confuso, ma in ogni caso non mi era sfuggito il fatto che iniziavo a guardarmi intorno, e a sbandare.

«Hai perso la lingua?»

«No, cioè sì…» i singhiozzi pulsavano nell’esofago, stavo per scoppiare in lacrime. «Ti prego… ciao.»

Prima di scappare, di andar via e defilarmi a gambe levate, ebbi appena il tempo di notare che si era accigliata. Come potevo averle provocato un dispiacere? Forse la irritava il fatto che qualcuno potesse aver deluso una sua spontanea apertura… lei si era buttata e lui zac: un ceffone, per quanto sorprendente potesse apparire.

Presi a camminare, più pensavo e più mi allontanavo. Superata l’area dei parcheggi tagliai la strada senza guardare; la mia auto, l’auto che mi aveva condotto fin lì – perché un “lì” e un “qui” ancora c’erano, malgrado lo spaesamento – probabilmente era altrove, e io avevo un appuntamento, sì un appuntamento! Ecco il motivo per cui pagavo il parcheggio, ma adesso non importava… a contatto col paradosso si ha poca scelta, che si agisca o meno si è codardi e basta: avevo deluso una bellezza – la mia “idea di bellezza”! – ero in debito, in debito feroce con la natura, c’era dell’etica in tutto questo, come calpestare una rosa per il gusto perverso di provarne la sofferenza, non si trattava di sesso, ero un mostro. Proprio in quel mentre mi sentii seguito. Avevo il fiato sul collo a dire il vero, le suole dietro calpestavano sempre più in fretta le foglie secche. «Ehi» mi sentii chiamare «fermati! Voglio solo sapere il tuo nome!»

Sembrerà incredibile, ma udii dire questo: «Sei matto? Vuoi fermarti?»

Una mano mi agguantò, carpì per un attimo un lembo della mia maglia sudata ma riuscii lo stesso a sfuggirle.

«Lasciami!» protestai con voce stridula. «Sto facendo tardi!»

«Stai scherzando? “Rugiada di qua, balsamo di là” e adesso scappi?»

Emisi un risolino isterico: «Quelle cose lì io non le ho mai dette!»

«Sì vabbè vuoi rallentare? Mi si è già rotto un sandalo!»

«Appunto, fermati! Sono leggeri, rompi anche l’altro!»

«Hai un negozio di scarpe, è per questo che sei in ritardo? Che cavolo ne sai tu dei miei sandali?» questa volta il tentativo di afferrarmi, forse per stizza, prese le forme di un colpetto, una sorta di schiaffo sulla nuca.

«Ahi!» mi lamentai, ma senza troppa convinzione.

«Ma fammi il piacere, che ora ti meno davvero se non ti fermi! Eri bravo a sbrodolare quelle cose prima, dimmi almeno come ti chiami!»

Ansimavo. Era un bell’osso duro la scalmanata, mi tallonava e non voleva saperne. Avrei dovuto evitare di risponderle, svoltare all’improvviso e iniziare a correre. Invece, rompendo il fiato mi trovai ad ammettere: «Ho sbagliato io, ho sbagliato! Per favore accetta le mie scuse e fammi andare, ho un appuntamento importante, devo concentrarmi…»

«Concentrarti?» distintamente, la udii sogghignare.

Allora mi attraversò un pensiero: “È già così dentro?” mi chiesi mentre archiviavo la voragine prodotta dai lavori in corso. Era già a quel punto di una relazione in cui si sonda la possibilità di farsi beffe dell’altro, scanzonato preludio a quando poi si farà sul serio? Rabbrividii e se possibile allungai ancor più il passo.

Per un po’ nessuno dei due disse una parola. Magari stava solo aspettando che quell’uscita azzardata fosse passata in secondo piano; ma per poi fare cosa, affondare di nuovo il colpo? Intanto la folla aumentava. E se scartavo, lei scartava. Davo il passo e la sentivo tra i piedi: a ogni intralcio, recuperava preziose posizioni. Eppure, dopo una piazza, cambiato senza preavviso senso di marcia credetti di averla sviata, favorito dal traffico. Per non so quale automatismo difensivo cacciai fuori il telefono, tutto trafelato; intravidi una pensilina, finsi di rispondere a una chiamata e mi fermai, approfittando della stazione. Allargando di sottecchi il campo visivo, non c’era più traccia della mia inseguitrice. Per cui riposi il telefono al suo posto, e tirando un sospiro di sollievo mi rincamminai con un briciolo di fiducia: senza volerlo, avevo raggiunto la zona della mia vecchia casa. Potevo togliermi dalla strada maestra insomma, imboccai il vicolo e stavolta tirai il fiato per davvero: piegandomi sulle ginocchia, tentai di recuperare. Scollai la maglia sudata dal petto e dalla pancia, mi detersi la fronte con un paio di manate. Quindi passai di fronte al portone della casa dove abitavo. Ripensai a Mara, i primi tempi insieme, le serate trascorse su un letto che era stato stretto per uno…

«Ti chiami Mario, hai quarant’anni, fai l’insegnante di sostegno e sei una grandissima testa di cazzo!»

Come una lince, quella sfrontata mi piombò addosso!

La immortalai con la coda dell’occhio, ed era cambiata – davvero, la mia ultima immagine di lei risaliva al semaforo, quando sbocciava, granata, di fresco, mentre ora appassiva, sì, era cadente, “sfiorita”: ecco il termine giusto – il suo volto trasmetteva un’impressione molto simile, nei risultati, a quell’impulso ambiguo di cui ero stato vittima io stesso, fonte di guai e disgrazie… ad ogni modo correva, perché anch’io correvo. E se il vicolo si stringeva, le nostre suole rimbombavano sull’asfalto. Esausto, pregai di essere svegliato da un incubo. Ripensai con cordoglio a quando l’avevo paragonata a un fiore… no, che vergognoso accostamento! Invocai il nome di Mara, se in qualche modo poteva apparire e salvarmi…

Ma anziché il suo volto, in un cantuccio spuntò il rudere di un’antica officina in disarmo. Un casotto imbiancato a calce del tutto abbandonato a se stesso, messo lì apposta per nascondersi in certe situazioni… senza ragionarci su, mi ci ritrovai dentro.

Era buio e umido, molto diverso dall’afa di fuori. Sulla porticina, alla maniglia in ferro mezzo arrugginito a cui ero aggrappato, tirava come un ossesso. L’uscita di sicurezza di un velivolo destinato a precipitare…

«Voglio sapere il nome della tua donna, stronzo! Voglio sapere dove abiti!» 

 

Svegliandomi di soprassalto, ho avuto la spiacevole sensazione che qualcosa non andava: il cuore era veloce, il collo sudato. Con cautela, dopo essermi concesso del tempo supino mi sono girato sul fianco con l’intenzione di posare lo sguardo su Mara, guardarla dormire in genere sapeva rassicurarmi.
Accanto a me c’era una donna che non conoscevo.